Emanuela Serra, storica danzatrice di Balletto Civile, ha presentato il 15 e 16 giugno all’Arena del Sole di Bologna, nell’ambito del focus Carne, la performance Loose dogs, un lavoro site-specific che, affrontando il rapporto corpo-voce a partire da una scrittura autoriale di testi, costruisce una messa in scena ispirata alle graphic novel. Il lavoro si colloca come seconda tappa di un percorso di ricerca iniziato nel 2016 con lo spettacolo Just before the forest.
Emanuela, consideri Loose dogs un lavoro in continuità con il precedente oppure un’indagine del tutto nuova?
«Just before the forest è stato un lavoro più complesso, in quanto coinvolgeva dei ragazzi che stavano facendo un percorso di integrazione, essendo uno spettacolo nato dalla volontà di creare un format da poter usare all’interno dei centri di seconda accoglienza. La differenza principale è che quel percorso artistico prevedeva una parte laboratoriale durante la quale ho collaborato con un’équipe, mentre Loose dogs è stato un lavoro verticale che ho fatto solo su di me.
In Just before the forest ho cercato di condurre una linea drammaturgica ispirata a La notte poco prima della foresta di Bernard-Marie Koltès, e i ragazzi erano coinvolti all’interno del disegno di questo format, che consisteva nell’incontro tra me e un ipotetico straniero. Anche se nello spettacolo non ho usato le parole di Koltès, è grazie ai suoi testi che ho trovato un concetto che tuttora condivido e applico all’uso della parola in teatro per la mia indagine, ovvero “La parola è come un fiume”. È come se a un certo punto si staccasse un argine, e la parola che ne esce viene condotta dal corpo. Si crea un’ emorragia interna, uno stato fisico in cui il corpo si fa canale della parola.
In Loose dogs sono partita invece dalla scrittura, che è sempre stato un mio canale di espressione. In un periodo della mia vita ho assistito a dei contest di slam poetry e mi avevano interessato questi pezzi brevi ma molto intensi, mentre io ero troppo impegnata a cercare di scrivere una storia e a un certo punto perdevo l’ispirazione. Perciò ho cominciato a seguire quella modalità scrivendo una serie di testi che apparentemente non avevano niente in comune tra loro, e quando poi ho deciso di fare Loose dogs, ho provato a creare un medley mescolando le parti più interessanti di ogni testo. Ho così disegnato un personaggio che chiamo “roccia da bar”, un incassatore tipo punching ball, che non si fa mai scalfire e non si guarda dentro. Nel corso dello spettacolo questa “roccia” si spacca, non si autoregge più».
Sulla scena, quali elementi sostengono il rapporto vicendevole che c’è tra corpo e testo? Si instaura una gerarchia tra i due?
«A volte prevale il testo, a volte il corpo, altre volte uno stato fisico che manda tutto ciò che è parola in una specie di afasia che viene sbloccata proprio dal lavoro del corpo. Loose dogs infatti non è mai precisamente uguale, in quanto viene proposto in luoghi site specific come banconi dei bar o pub, perciò è molto legato a quello che trovo. Essendo live, poi, la performance non ha una struttura rigidamente segnata, bensì provo a lasciare il passaggio corpo-parola libero e fluido, rendendolo più vero possibile: in questa dinamica sono anche facilitata dal fatto che lavoro da sola.
Un altro elemento che risente della non definibilità di questo spettacolo è infine la musica, eseguita dal vivo da Guido Affini che collabora con Balletto Civile».
Quanto influisce sulla performance il fatto che avviene sempre in luoghi diversi? Il rapporto con gli spettatori e la loro diversa collocazione spaziale influiscono sul risultato dello spettacolo?
«Il fatto che non sia mai lo stesso luogo sicuramente influisce sulla performance. Per esempio, al festival di Pennabilli mi sono esibita nel disco bar Saloon, che ha chiuso per una mezz’ora apposta per permettermi di fare lo spettacolo. Ho cominciato la performance in mezzo alle persone che bevevano ancora al bancone e ho dovuto farmi spazio per passare. Nella replica al Teatro della Tosse, invece, l’interazione con gli spettatori era molto diretta e fisica, con passaggi di oggetti fra me e il pubblico.
Per quanto riguarda la replica in occasione del focus Carne, per la prima volta lo spettacolo è avvuto su un palcoscenico, ricreando un allestimento che ricordi l’interno di un bar. Normalmente non c’è una scenografia strutturata, ma ho pochi elementi che mi servono per avere un punto di riferimento, come un attaccapanni costruito dal mio vicino di casa».
Di cosa si è composta l’installazione?
«Ho avuto l’opportunità di scegliere degli elementi con cui poter interagire in scena dal fornitissimo magazzino dell’Arena del sole, come per esempio tavolini, un bancone o una poltroncina, elementi più che altro funzionali a delimitare e tracciare lo spazio d’azione. Inoltre Loose dogs propone un immaginario ispirato alle graphic novel, e questa è un’altra cosa che lo accomuna a Just before the forest. Sono da sempre appassionata alle graphic novel: ritengo che i disegni e i collage di parole e immagini siano delle soluzioni geniali ed estremamente interessanti a livello drammaturgico. In Loose dogs, oltre all’utilizzo di barre luci al neon, viene impiegato un occhio di bue per inquadrare il personaggio in una sorta di vignetta, e questo crea immediatamente un’atmosfera da fumetto. Ragionando infatti sulla costruzione del piano luci con Alessandro Pallecchi, danzatore di Balletto Civile che in questo spettacolo mi dà una mano come tecnico, ci siamo accorti di seguire proprio la direzione delle graphic novel».
Nel descrivere questo lavoro, hai parlato del corpo e della sua “urgenza di dire”. Cosa intendi?
«Considerando la mia formazione – sono entrata in Balletto Civile quando avevo ventidue anni, per cui mi confronto da sempre con la commistione di linguaggi tra corpo, azione fisica, parola e canto – potrei dire che nasco come performer. Just before the forest e Loose dogs provengono entrambi da un terreno di ricerca intento a unire corpo e voce. Ciò che ha contraddistinto Loose dogs è stato l’approccio alla scrittura personale che è un terzo elemento, uno strumento formale attraverso cui rispondere a un’urgenza, quella di affrontare cose distanti o violenti, difficili da accettare, tramite una traduzione in chiave poetica che, donando senso e restituendo sensibilità, permette anche di comprenderle. La poesia si presta come un salvavita, una lente attraverso cui poter interpretare, e quindi reagire, senza lasciarsi schiacciare. Nel personaggio di Loose dogs si realizza una spaccatura interna e profonda che arriva da un ascolto e di conseguenza da una presa di consapevolezza: è da questa rottura, da questa breccia che origina e si lascia fluire il linguaggio poetico del medley di testi su cui poggia la drammaturgia della performance. Si realizza così un flusso di coscienza, un monologo interiore, una radiografia che dà spazio all’incontro con tutte quelle cose che solitamente non riusciamo a vedere o ricevere come dirette».
È stato difficile predisporsi e affrontare a livello fisico ed emotivo questa condizione?
«Alcuni temi mi hanno toccato particolarmente, poiché di fatto tutto nasce da un percorso personale che ha spostato il mio punto di vista su me stessa. Il lavoro che noi performer facciamo porta a indagarsi, a tirare fuori qualcosa di sé: il corpo nel tempo realizza una sorta di mappatura in base agli stati emotivi che viviamo, per cui può risultare talvolta doloroso ma anche divertente ed entusiasmante, poiché si riesce a mettere su carta e a vedere realizzata un’indagine generale e personale a priori dalla ricerca e dal risultato artistico. Ma non direi che è stato difficoltoso, poiché quando si decide di approcciarsi a un lavoro, si ha già insita una resistenza che consente di farlo. Sicuramente però Loose dogs richiede molta concentrazione rispetto ad altri lavori: l’azione scenica non è completamente predefinita e strutturata, tutto si realizza in live action e ciò comporta il mantenere una presenza vigile e attenta per tutto l’arco della performance che, in quanto tale, si espone al rischio dell’imprevisto, dell’intralcio, della distrazione, a cui rendere conto nel presente di quel momento, nel suo compiersi».
intervista a cura di Beatrice Gatti e Sofia Ruzzu
realizzata nell’ambito del “Laboratorio di giornalismo culturale” a cura di Altre Velocità per Carne / Emilia Romagna Teatro