Ontologia dell’improvvisazione. Intervista a Roberto Castello

Dance Concert si prefigura come una festa, un’adunanza, un incontro di artistə e spettatorə insieme, nella sincera accoglienza che ciò che succederà sarà comunque qualcosa. E questo avviene grazie all’improvvisazione che è linguaggio, contenuto, processo e modalità del progetto firmato da Aldes: una scelta politica e poetica di cui abbiamo parlato col danzatore e coreografo Roberto Castello, che firma la regia dello spettacolo in programma domani alle 21.30 al chiostro dell’Arena del Sole.

Come è nata la collaborazione con le interpreti di Dance Concert?

«Giselda Ranieri, che conosco da tempo, porta al lavoro fluidità e attraversabilità nell’approccio, assieme a una ricerca di umanità molto profonda; con Elizabeth Schilling c’è invece un rapporto continuativo ma più rarefatto: è stata più volte in residenza a SPAM! a Porcari, sede della nostra compagnia, e ha un modo molto nordeuropeo di affrontare la danza, come se fosse una questione di metodo. Infine, Lorin Sookool è una danzatrice sudafricana di solida base classica, il tipo di persona che non ti aspetteresti di incontrare a Maputo in Mozambico, dove l’ho conosciuta nel 2019 quando vi ho messo in scena In girum imus nocte et consumimur igni. È proprio dialogando con lei che si è innescato qualcosa: mi è sembrato che le motivazioni dalle quali prende spunto e i termini che utilizza per parlare del suo lavoro improvvisativo avessero a che fare con un sistema di valori determinati dal contesto sociale in cui è inserita, più che lavorativo. La stessa cosa si potrebbe dire di Giselda e Elizabeth. Ho pensato che accostare tre donne potesse essere occasione per una riflessione sulla profonda biodiversità culturale, che tante volte viene cancellata dagli stereotipi che vigono anche nel nostro mondo dello spettacolo contemporaneo. Ad accompagnare quest’operazione c’è Alessandro Bertinetto, docente di estetica attivo in Italia ed Europa, che ha scritto molto riguardo all’improvvisazione, sulla quali siamo entrati in sintonia e amicizia».

Qual è il ruolo di coreografo in questo lavoro basato sull’improvvisazione?

«Il mio ruolo come coreografo credo di poter dire sia inesistente. Forse più correttamente posso ricoprire il ruolo del producer, ovvero del produttore in senso antico, colui che ha l’idea di mettere insieme delle persone intuendo che la loro vicinanza e la loro collaborazione possa essere interessante. Credo nel valore politico dell’improvvisazione non solo come pratica artistica, ma anche e soprattutto in quanto tentativo di uscire dalla logica del prodotto, della certezza del risultato. Nell’ontologia dell’improvvisazione (mi riferisco a quanto scrive Bertinetto in Estetica dell’improvvisazione) c’è qualcosa di profondamente vero che si tende a rimuovere nella logica funzionale delle nostre società: l’improvvisazione è meravigliosa perché offre l’occasione di misurarsi con l’inadeguatezza del reale, coltivando in sé il germe del fallimento, nel quale trova la sua piena realizzazione. La vita è improvvisazione, o meglio, l’improvvisazione è in qualche modo una riproduzione degli schemi che gli esseri viventi applicano nel corso della loro esistenza, ma posizionata all’interno di una cornice estetica. Forse allora il mio ruolo come coreografo è rendere possibile un’operazione di cui non sono il demiurgo ma piuttosto il detonatore, e la affronterò improvvisando il mio ruolo, coerentemente con quello che è lo spirito del progetto. Penso che la contropartita che devo alla società per il privilegio di fare questo lavoro non sia cercare compiacere il pubblico, bensì arricchire la vita delle persone, accettando il rischio che ne deriva».

In che modo l’improvvisazione e l’oralità, rispetto alla scrittura, si rivolgono alla dimensione del qui e ora nella quale l’evento scenico accade?

«L’oralità è radicalmente calata nel presente, essendo legata alla realtà fattuale di ciò che accade. Tanto più si entra in una dimensione orale, tanto più si restringe la dimensione temporale, perché l’oralità non è proiettata verso l’infinito, ma rimane legata al momento in cui nascono le cose. Nella cultura occidentale si tende a pensare alla scrittura e all’arte in generale come qualcosa di imperituro che sopravvivrà nel tempo: verba volant, scripta manent. Il grande artista è visto come colui che trascende la dimensione del tempo proiettandosi verso l’eternità; ma personalmente penso sia più importante cercare il senso delle nostre vite momento per momento, piuttosto che immolarsi per lasciare delle tracce imperiture. I miei danzatori sono in larghissima misura autori di ciò che fanno e il mio ruolo è ideare le cornici all’interno delle quali si esprime la loro autorialità. Credo sia importante lavorare sulle diverse modalità di scrittura, sui diversi rapporti con l’oralità e la verbalità, per cercare di comprendere come queste diverse dimensioni si riflettono sulle forme della danza e della musica. Si tratta di mettere al centro l’improvvisazione non soltanto come pratica, ma anche come oggetto di riflessione, non potendo sapere a priori quale sarà il valore di questo lavoro».

In che modo un’improvvisazione interloquisce con il pubblico? Come creare un’esperienza che non sia ostica ma nemmeno superficiale?

«Questo è il punto dell’improvvisazione, il suo obiettivo utopico. Chi improvvisa cerca di comunicare con un pubblico non per compiacerlo, ma piuttosto per condividere una modalità d’accesso alla creatività. Ogni improvvisazione fatalmente costruisce un proprio codice, anche se non lo cerca, e quello diventa la chiave attraverso cui il pubblico può entrare in relazione con essa, così che non brancoli nel vuoto. Avremo dieci giorni di lavoro insieme alle interpreti nei quali tenteremo di creare qualcosa che possa essere navigabile ma che al contempo rimanga corretto nel modo di porsi, cioè non imbellettato per risultare più piacevole. Riprendendo ancora Bertinetto, un’improvvisazione fatta in assenza di pubblico è completamente diversa da una fatta di fronte a un osservatore; il pubblico anche solo con la sua presenza influisce e può cambiare il corso di un’improvvisazione. Nessuno sa davvero cosa ne uscirà fuori, ma vorrei che nascesse insieme alle performer: ci saranno serate straordinarie e serate che lo saranno molto meno, questo è il rischio di affidarsi a scelte non prefigurate e dell’apertura verso un orizzonte di divertimento. Se una persona si lancia nell’ignoto non si dovrebbe neanche porre il problema del risultato, perché il migliore che può ottenere è quello di scoprire il risultato improvvisando. In Dance Concert è proprio questa la parte interessante e l’elemento di coerenza: il fatto che nessuno sta preordinando nulla, ciò che avverrà sarà frutto della dinamica dell’incontro».

intervista a cura di Irene Dani, Jacopo De Luca, Lucrezia Rosellini

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