Danzare il proprio vuoto. Intervista a Cristiano Fabbri

Il 29 e 30 giugno all’Arena del Sole di Bologna, nell’ambito del focus Carne, il danzatore e coreografo Cristiano Fabbri presenta Natura morta con gioco. Ispirato alla poesia mistica dei Quattro quartetti di T.S.Eliot, lo spettacolo narra di un percorso che cerca di esplorare la fragilità dell’esistenza umana gettata nel tempo. La parola e il corpo si accompagnano nell’oscurità del dubbio e dell’insensatezza che risuonano nel teatro della solitudine all’interno di una scenografia essenziale: una scala e delle pietre sono gli oggetti scelti dall’artista per delineare il proprio spazio interiore, scenario di un movimento spirituale animato dalla dialettica tra il tentativo di elevazione e la tendenza alla gravità. Una critica del proprio tempo, come di ogni tempo che rimuove il vuoto per paura di abitarlo. Allora non rimane che danzare attraverso questo vuoto, seguendo la luce che guida chi si mette in cammino.

Cristiano, qual è il percorso che ti ha portato a Natura morta con gioco?

«Lo spettacolo è nato nel 2013, dopo avere terminato l’attività della mia ex compagnia Lische. Con la fine di quel sodalizio artistico, per un po’ di anni ho lavorato con vari gruppi milanesi, ma sentendomi sempre solo. Natura morta con gioco è proprio un lavoro nato dalla solitudine dopo molte collaborazioni, esito di un periodo di svuotamento dalle relazioni artistiche che mi è stato utile per cominciare a lavorare di più sul mio immaginario poetico, per appoggiarmi a cose più affini a me stesso e senza compromessi. Nelle collaborazioni, infatti, si tende sempre ad accomodare gli altri, mentre da soli si vive sicuramente la difficoltà di iniziare il viaggio, ma dall’altra parte di ha anche il lusso di poter sperimentare cose nuove, lasciarle lì e riprenderle successivamente.
Al Teatro Arena del Sole riallestirò lo spettacolo dopo nove anni dall’ultima replica: si è trattato di un lavoro importante sia a livello fisico che di riscrittura, avendo per esempio cambiato alcune scene e la musica; ma in generale l’impianto del lavoro funzionava e mi sono tenuto abbastanza fedele all’originale».

Questo lavoro è ispirato dalla lettura dei Quattro quartetti di T.S.Eliot. Quali elementi in particolare di questo denso testo poetico hai fatto tuoi?

«Leggendo i Quattro quartetti ho cominciato a riflettere sull’esistenza o meno di un percorso della propria vita e sulla possibilità di conoscere in maniera un po’ più profonda ciò che circonda e sostiene la realtà. La cosa bella di poeti come Eliot o Blake è che concepiscono lo spazio in forma religiosa, mentre oggi viviamo in una società dove la scienza e la tecnica ci hanno lasciato un mondo che non contempla più il vuoto. Viviamo in uno spazio sempre pieno di dettagli nel quale tutto deve essere soggetto alla comprensione; uno spazio che taglia fuori il dubbio, grande motore della ricerca degli uomini. Ma l’oggettività serve fino a un certo punto, mentre il porsi domande porta a cercare e forse anche a trovare delle risposte. Eliot descriveva lo sfacelo della società del suo tempo in un testo poetico di grande densità, difficile da leggere in una maniera univoca, perché si presta a molte analogie e interpretazioni, con molti riferimenti religiosi e filosofici, tra cui quelli alle filosofie zen e taoistiche. Personalmente ho sempre visto una sorta di sfacelo intorno a me; questo senso del tragico di certo mi appartiene e ho cercato di esprimerlo anche attraverso le mie poesie. Natura morta con gioco mette insieme questi due elementi fondamentali nella mia visione dell’esistenza umana: il senso del sacro e quello del tragico. Si tratta di indagare la possibilità di costruire qualcosa dalle rovine, che sono parte del cammino dell’uomo e della società che viviamo».

Dalla tua duplice prospettiva di danzatore e coreografo, nel tuo lavoro qual è il rapporto tra danza e parola, intesa come logos poetico ma anche come scrittura coreografica?

«In Natura morta con gioco, attraverso la danza cerco di riportare la densità del testo poetico mediante l’utilizzo di scenografie molto semplici e ingombranti al contempo, come una scala in legno a pioli molto alta e delle pietre abbastanza importanti, simboli e parte di questa narrazione che comprende i due aspetti della permanenza e dell’assenza, del visibile e dell’invisibile. L’azione scenica si gioca sul contrasto tra la scala, che rappresenta un’elevazione e un punto di trascendenza quasi metafisico, e invece i sassi, che sono sia detrito che forza di gravità, simbolo di ciò che c’è di inanimato. La narrazione che ho costruito parla di un uomo che arriva in questa natura morta rappresentata dalla scala e dai sassi, la abita e interagisce con questi oggetti delineando il proprio percorso insieme a essi, dando così vita a un movimento che è anche una sorta di via crucis. In questo percorso mi chiedo se, come uomini, abbiamo davvero la possibilità di curare gli istanti, perché la vita in fondo è fatta di istanti e a volte in uno solo di questi c’è il frutto di tutta una vita, c’è un cosmo intero che non ha mai svelato quei segreti che continuiamo a cercare. Nella sezione finale dei Quattro quartetti leggiamo: “Alla fine tutte le cose, la rosa e il fuoco, siano uno”. C’è una tensione verso l’unità, un ritorno che passa per la contraddizione degli opposti, dell’alto e del basso, della vita e della morte, che sono parte del grande cerchio di questo percorso, di questa narrazione in direzione dell’oscurità che fa parte della vita dell’uomo. Nel non capire, nel domandarsi dobbiamo tentare di leggere qualcosa, e forse siamo qui per captare un senso in questa oscurità, in questo vuoto.
Per quanto riguarda la scrittura coreografica, questo lavoro in alcune parti è molto preciso, ma allo stesso tempo mi permette di fare entrare cose nuove ogni volta che lo faccio, perché non ho una coreografia predefinita. Partendo dal lavoro di scrittura che c’è dietro posso permettermi di indugiare di più in alcuni istanti, di decidere di non fare delle cose o aggiungerne altre, anche perché essendo da solo, posso permettermi questa libertà che altrimenti sarebbe parziale. È un modo di comporre che mi aiuta a far entrare il presente sulla scena, a non chiudermi in una partitura perdendo una relazione per me fondamentale con lo spazio, il che rimanda a quell’aspetto un po’ mistico, alla tendenza ad andare oltre la fisicità anche solo con una certa tensione emotiva, con lo sguardo o tramite la presenza del corpo sulla scena. A volte non serve fare tanto, ma basta mettere le cose nel posto giusto dando loro la giusta luce. Quando scrivo le mie poesie o mi preparo per affrontare un lavoro, parto sempre da una dimensione solitaria, nel senso che parto da ciò che sento in relazione al mondo in cui vivo e poi cerco una direzione, proprio come nella danza. Poi man mano questa direzione inizia gradualmente a prendere una certa densità e a riempirsi di esperienza, un po’ come nella vita: si fa un’esperienza una prima volta, poi la si ripete e questo ripetere tende a creare una qualità, invece che un automatismo. Al contrario, la ripetizione priva di attenzione porta a quegli automatismi che non ti permettono di essere cosciente quando fai le cose. È una situazione con la quale spesso mi sono scontrato soprattutto nell’ambiente della danza, con le sue forme ipertrofiche dei movimenti dove c’è poco spazio per fare entrare altro oltre la performance. Ma allo stesso tempo il rigore in relazione al corpo è fondamentale, perché il corpo è lo strumento del danzatore come il violoncello per il musicista, e dobbiamo saperlo tenere accordato e suonarlo in un certo modo».

Il titolo di questo tuo lavoro rimanda a un immaginario pittorico vivificato dal rimando al gioco. Di che natura sarà il gioco che metterai in scena attraverso la composizione e l’interazione con gli elementi di scena, la scala e le pietre?

«Con la parola “gioco” mi riferisco innanzitutto al gioco del teatro, che consiste nell’inscenare qualcosa che è più grande di me, come nel parlare della morte che è sempre qualcosa che trascende l’esperienza individuale. In ciò c’è chiaramente un po’ di presunzione, ma facendolo con lo spirito giusto, cioè quello del bambino che si avvicina a dei materiali, li saggia e li trova, pur non avendo la stessa freschezza dell’infanzia, cerco di lavorare anche sull’aspetto più oscuro e tragico di scontro con la realtà senza dargli un penso eccessivo, bensì vivendolo come un gioco per arrivare in fondo e vedere poi cosa succede. La parola “gioco” mi serviva anche per non rendere definitivamente pessimista la natura morta, termine e concetto al quale ho pensato subito, anche se poi ho riflettuto sul fatto che ci sono anch’io, che sono vivo. D’altronde la natura morta è sempre qualcosa che non esiste di per sé, ma che deriva dall’allestimento degli oggetti in un certo modo, perché ci ispirano qualcosa, o perché spesso sono appartenuti a qualcuno, fanno parte della nostra quotidianità e sono dunque già narrazione di per sé. Tramite l’azione del danzatore sulla scena questi elementi vengono vivificati, così l’azione scenica diventa il gioco degli elementi, il gioco della vita. Sappiamo qual è il momento finale di questo gioco, ma non sappiamo come ci arriveremo. Ognuno ha il suo percorso che rimane tutto da definire e da giocare, vincendo e perdendo. L’importante per me è soprattutto giocare e non ritrarsi. Lavoro spesso con i bambini e mi rendo conto dell’importanza di giocare anche con cose un po’ più pesanti per loro, come la guerra o la morte. Ho fatto dei laboratori con le scuole elementari e mi è sembrato che si stia perdendo la capacità del gioco, perché le nuove generazioni tendono a usare poco il corpo e molto i dispositivi. I giochi all’aria aperta, a contatto con la materia, sono sempre meno e questo è uno degli aspetti della nostra società che a mio avviso peserà di più nel futuro».

In Natura morta con gioco proponi la narrazione di un percorso attraverso l’oscurità alla ricerca della luce che illumina quei rari istanti dei quali parla la poesia di Eliot. Che ruolo ha la luce sul piano tecnico della coreografia?

«La luce ha una funzione di guida nel lavoro. C’è un presagio di decadenza, un senso di catastrofe, ma nonostante ciò, spero che ci sia sempre una luce che ci guidi da qualche parte. All’Arena del Sole il lavoro sull’illuminotecnica sarà quasi improvvisato e cercherò di gestire la luce in relazione alle potenzialità dello spazio. In alcuni momenti vedremo solo l’uomo con le pietre al buio, in altri l’uomo con la scala, e in altri ancora tutte e due le zone illuminate con i sassi da una parte e la scala dall’altra che creano questa sorta di percorso e di visione scenica. Si apre tutto in una zona, poi piano piano questi oggetti vengono sparpagliati prendendo spazio e il corpo agisce con questi oggetti, li mette insieme, li separa e tutto si chiude di nuovo con tre elementi scenici distinti, come a voler separare gli elementi della materia. Lo spettatore vedrà dei dei veri e propri quadri».

intervista a cura di Jacopo De Luca

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