“El elogio de la fisura”, l’incertezza del passo come rinascita dalla fissità del passato

Qualcuno potrebbe pensare che andare a uno spettacolo di teatro sia un’attività che richiede molto tempo e conoscenze pregresse riguardo all’opera: chi vorrebbe andare a vedere per due ore qualcosa di cui non capisce niente? In realtà, ci sono anche spettacoli come El elogio de la fisura che smentiscono queste paure: in quindici minuti, la ballerina spagnola Lorena Nogal da sola mette in scena uno spettacolo in divenire, che nasce da un’esigenza chiara, personale e profonda, ma che allo stesso tempo svela il suo carattere di ricerca e di indefinito.

L’esibizione, nell’ambito del focus Carne a cura di Emilia Romagna Teatro, ha trovato il suo spazio ideale nell’ex Chiesa di Santo Spirito a Cesena, un’unica grande stanza nella quale le navate sono sostituite dalle file degli spettatori e l’altare dal palco. Nogal fa la sua entrata in un largo completo nero e scarpe laccate, procedendo con passi lunghi e lenti e con sguardo perso, come se ci fosse capitata in quella stanza e di fronte a un pubblico. Come si fa con degli sconosciuti, Nogal si presenta cominciando a danzare e rivelandoci quello squilibrio e quella velocità che, come ha detto lei stessa nell’intervista sul blog di Carne, prima di questo spettacolo considerava dei suoi difetti, mentre ora sono rivalutati come sue caratteristiche distintive. Movimenti spezzati e incerti, che portano la performer prima ai lati del palco-altare, e poi lungo il perimetro della stanza stessa, sui muri, come se al centro ci fosse lava incandescente.

Il carattere in divenire dello spettacolo è scandito anche dallo spogliarsi progressivo di Nogal, quindi dalle sue vesti: prima un completo nero, dopo un lungo ed elegante abito, sempre nero, che le dà un’aria più canonicamente femminile; e questo è inevitabile dal momento che l’abito valorizza la sua figura in perfetto accordo con i suoi movimenti. A tale apparente armonia si contrappone la disarmonia dei suoi movimenti, che in questo secondo momento dello spettacolo appaiono affaticati, conquistati, e la cui tensione è evidenziata dai violini in sottofondo. In alcuni momenti di silenzio, in cui la musica si interrompe, si sente chiaramente il respiro affannato di Nogal, e sono quei momenti in cui guarda il pubblico come se fosse smarrita, come se stesse cercando qualcuno. La ricerca dell’Altro – che sottolinea il carattere solo dello spettacolo – si risolve forse nell’ombra della stessa protagonista, che non è una presenza metaforica o immaginata, ma reale: una luce puntata sulla danzatrice proietta alle sue spalle la sua ombra sul muro, ombra che diventa un punto di confronto e di riferimento costante fino alla fusione con essa, alla fine dell’esibizione, quando le va incontro volgendo le spalle agli spettatori. Così come era entrata mostrandosi insicura e smarrita, così esce dalla visuale degli spettatori guardandosi attorno, quasi riflettendo sui suoi passi, rendendo chiara la struttura circolare della sua esibizione. È come se nelle diverse fasi dell’esibizione Nogal si rendesse conto della presenza di fessure, crepe che può vedere soltanto lei, momenti di rivelazione e consapevolezza, e decidesse di approfondirle rimanendo lì, fissa in quel preciso punto, a interrogarle con i suoi movimenti spezzati. È a tutti gli effetti un elogio, unico nel suo genere perché passa attraverso il suo corpo e non attraverso delle parole.

Ciò che resta è quasi una confessione dell’artista a cui gli spettatori hanno l’onore di prendere parte, in un’atmosfera sicuramente intima dove l’evocazione si fa rituale, grazie anche alla suggestività del luogo. È una confessione che rivela la volontà di liberarsi dai movimenti che anni di danza hanno imposto e automatizzato, che non ha ancora raggiunto la stessa facilità con cui ci si spoglia da un vestito, ma che mostra già la bellezza che risiede nell’unicità dell’imperfezione.

Francesca Santoro

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Scroll to Top