Tell Me a Story è la storia di tante storie, di vite individuali che si incontrano, si intersecano, si scontrano, diventano comunità. È l’esito di una “auto-drammaturgia” curata da Balletto Civile per corpi adolescenti dai 14 ai 21 anni: mutevoli e floridi, colti in una fase di muta e formazione, trasformazione.
Un cono di luce dall’alto illumina un ragazzo al centro della scena; con le braccia protese regge una pesante asta rossa di metallo, perpendicolare al pavimento. Le note del flauto di Prélude à l’après-midi d’un faune iniziano ad accarezzare l’aria, e a poco a poco tutti i giovani corpi, disposti su due schiere laterali e parallele, iniziano a lasciare il proprio posto per disporsi a sorreggere insieme la barra rossa. Si creano e scompongono così delle figure corali attorno all’asta centrale, che viene utilizzata come strumento diverso a seconda della direzione e dello spazio che si trova a occupare: sono dei tableau vivant che ricordano tra gli altri i grand format neoclassici francesi con le scene epiche di guerra, di violenza, di ingiustizie e soprusi; opere di riscatto sociale e di libertà (La libertà che guida il popolo, Il quarto stato); l’iconografia cristiana dei compianti per il Cristo morto e dei crocifissi. L’asta infatti, in diagonale e sorretta dall’alto, diventa fendente, lama conficcata, palo appuntito che ogni volta miete vittime diverse; mentre in orizzontale, parallela al terreno, si trasforma in limbo, in sostegno, in soffocamento, nei bracci della croce cristiana; infine in verticale prende la forma di un vessillo, di un albero maestro, di uno stendardo da tenere saldo, carico dei valori di cui si fa portatore.
In tutte queste figure vi è un insieme magmatico di corpi e abiti che si intrecciano, si diradano, si contorcono e si elevano a vicenda, reciprocamente, l’uno grazie all’altro, l’uno contro l’altro. Un unico cuore pulsa in essi ed è un cuore pregno di sentimenti nell’aprirsi del ventaglio più ampio che le emozioni umane possano racchiudere: dalla rabbia più violenta alla solitudine più silenziosa, al canto che brama lotta, amore, grazia e bellezza.
Ci sono poi alcuni momenti in cui il gruppo si dirada, o è presente, ma solo in secondo piano. In un’occasione, infatti, l’asta diventa l’altra componente di un passo a due, sul fondo della scena: un unico danzatore l’alza, la sostiene con le spalle, le fa compiere rotazioni. Ne sente il peso, un peso individuale con cui non rinuncia a lottare, per non farsi schiacciare. Davanti, in primo piano rispetto allз spettatorз, un’altra figura compie il suo percorso da un lato all’altro dello spazio, in orizzontale. È la sua crisi interiore, il suo dolore misto a rabbia e dubbi che le riempiono la testa ed esplodono attraverso i rapidi movimenti del corpo, gli scatti, i passi veloci, le spigolature che attraversano e feriscono l’aria.
Non solo i corpi e la musica occupano lo spazio di Tell Me a Story , ma anche la voce è parte integrante della storia plurale che viene raccontata. Da una parte, la voce è canto: corale, per esprimere la forza e la violenza di un gruppo che esiste, che si afferma e che è pronto a diventare predatore da temere, in un ritornello in cui ruggiti, zanne, denti sono gli attributi che devono spaventare il nemico; e singolo, per esprimere il volere di una comunità che cerca la giustizia, nella vita, nell’amore, nel lavoro. Dall’altra parte, invece, è parola recitata: tre sono i monologhi che catturano l’attenzione del pubblico e che provocano in esso commozione, rabbia, senso di impotenza e desiderio di bellezza. Interrogano la religione, le chiedono il perché del male nel mondo; indagano le ingiustizie sociali, criticano le classi dominanti; raccontano l’ultimo ricordo felice, una gita al mare, un amore che forse doveva sbocciare.
Tell Me a Story grida di una generazione che impone la sua presenza, che urla contro le ingiustizie, che si fa branco affamato di giustizia, pronta a mostrare i denti, i ruggiti, le unghie senza rinunciare alla poesia e all’amore. Questi corpi bramosi della vita e della morte hanno paura, ma scelgono di non ignorarla. La sfiorano, la accarezzano, la mettono in mostra per ricordare che c’è, che è l’altro capo del filo rosso dell’esistenza. La mettono in scena per ricordare chi non è lì per affermare la propria presenza, per chi non è lì perché morto, e morto per l’alternanza scuola lavoro.
Sul corpo dell’ultimo monologo, la voce del giorno più bello, grava il peso dell’asta rossa che scende e lentamente lo schiaccia, fino a soffocarlo. Una bandiera bianca si erge a lato della scena: èla resa incondizionata forzata. Per quante volte ancora questa scena si dovrà ripetere?
Marta Renda