Joy Alpuerto Ritter, nata a Los Angeles e cresciuta in Germania, ha recentemente portato in scena il suo lavoro da solista Babae, affermandosi come coreografa sulla scena internazionale, mentre Hannes Langolf, interprete e coreografo londinese, collabora con artisti e compagnie di livello mondiale. Nel 2021 i due hanno collaborato creativamente all’interno della residenza sostenuta dal Centro internazionale per la danza Orsolina 28, nel cuore del Monferrato. Da questa esperienza è nato lo spettacolo The Fall, che sarà ospitato all’interno del focus di drammaturgia fisica Carne il 13 luglio alle 19.30 al Parco della Zucca di Bologna.
Come e quando è nata la vostra collaborazione?
Joy: «Ci siamo conosciuti come danzatori nella compagnia di Akram Khan e c’è stata subito un’ottima intesa tra noi. Per cinque anni non ci siamo visti, finché l’anno scorso Khan non ci ha proposto di collaborare all’interno del Centro Orsolina 28. È stato allora che abbiamo avuto la fantastica possibilità di lavorare ancora assieme e di essere i direttori di noi stessi».
Hannes: «Penso che la nostra collaborazione abbia funzionato soprattutto perché è iniziata quando ci trovavamo al Centro; prima di quel momento non avevamo pensato molto alla costruzione del pezzo. Il processo creativo doveva essere rapido, avevamo solo dieci giorni e abbiamo dovuto lavorare in maniera molto istintiva. È stato molto stimolante, perché c’era la costante sensazione di incoraggiare l’altro a esplorare nuove modalità e insieme ci siamo spinti alla ricerca di un significato e di una maggiore drammaticità nella costruzione del pezzo. Questo dialogo si è rivelato molto nutriente, è diventato un processo creativo che si autoalimentava ed è stato davvero fantastico».
La performance si sviluppa a partire da due corpi nello spazio. Quale idea di corpo vi ha guidato?
J: «Ci siamo pensati come se fossimo due estranei che si incontrano in un nuovo ambiente. La situazione iniziale è abbastanza caotica perché nasce da una storia che nemmeno noi conosciamo, su cui poi si innesta un incontro che schiude una serie di possibilità per inventare un nuovo mondo, una specie di società tra noi due. Credo che rappresentiamo noi stessi in quanto esseri umani, con la nostra ricerca di realizzazione e perfezione, ma anche con il nostro fallimento».
H: «Abbiamo lavorato su concetti archetipici ed estremi come il potere, la vulnerabilità, l’assurdità, la leggerezza e la relazione, cercando coi nostri corpi di dare vita a questi attributi umani indispensabili per una fondazione, per la coesistenza. Il corpo è stato un mezzo per interrogare e per esprimere, il vero collante delle scene. Il movimento è la forza trainante della storia che, pur conservando un intenso significato metaforico, è radicata nella fisicità. È la fisicità a sostenere il racconto».
A proposito del titolo, quale valore attribuite all’idea di caduta?
H: «L’idea da cui siamo partiti era quella di due persone che cadono in una superficie nuova, dove non ci sono civilizzazione né regole, niente di familiare a cui aggrapparsi. La caduta però porta con sé anche l’idea del volo, quindi non solo la pesantezza e la tragicità. Spesso abbiamo la sensazione di trovarci su una scogliera dove o si fa un passo avanti verso l’ignoto o si torna indietro, verso ciò che conosciamo: in questo lavoro c’è anche il senso di fare quel passo e lasciarci cadere verso una collaborazione reciproca, un viaggio creativo imprevedibile. Ancora, ci siamo imbattuti nel discorso, mai pronunciato, che il presidente Nixon avrebbe tenuto in caso di fallimento durante il primo allunaggio dell’Apollo 11, da cui è arrivata l’idea di caduta come possibilità di fallimento. Senza il coraggio del fallimento, una cosa come l’allunaggio non sarebbe stata possibile, così come qualunque tentativo di stabilire una nuova struttura e dei nuovi valori. Questo è risultato particolarmente vero in relazione ai dieci giorni del nostro processo creativo: avremmo potuto fallire, non trovare nessuna idea brillante, ma fortunatamente non è andata così: ci siamo messi in gioco dicendo “entriamo nello studio e da quel momento cadiamo in qualunque cosa si presenti a noi”».
Nella performance ricorrono musiche e testi. Come li avete scelti?
H: «La scelta della musica è stata molto istintiva. In studio abbiamo cercato quello che si accordava meglio con il nostro mood e con la storia che veniva raccontata in quel momento. Non volevamo che arrivasse soltanto l’idea di pesantezza, bensì che il suono manifestasse anche una sensazione di sollievo e la necessità dell’andare avanti. Abbiamo utilizzato alcuni suoni tipici dello spazio, come il countdown delle astronavi, e anche alcune canzoni note, che abbiamo scelto per le suggestioni, per le domande che lasciano».
Che uso fate delle scatole presenti sulla scena?
J: «Le scatole rappresentano molte cose e il loro significato dipende anche da ciò che lo spettatore vuole vedere in esse. Per noi rappresentano qualcosa in cui puoi mettere qualcos’altro, in cui tenere le cose al sicuro se sei in difficoltà o stai lasciando un posto; ma rappresentano anche qualcosa con cui possiamo costruire, ponendole una sopra l’altra, un muro o una casa. E possono rappresentare un muro che divide oppure un muro che sostiene. Sono quasi una terza presenza con cui interagiamo per tutta la durata della performance, capace di creare sia caos che ordine e struttura».
intervista a cura di Verdiana Benatti, Isabella Daddi e Elisabetta Rea