Con Gli anni, Marco D’Agostin riapre la porta alla memoria, tema ricorrente nella sua ricerca artistica da anni volta a indagare i meccanismi del ricordo e i suoi risvolti emotivi. Quello che vedremo al Teatro Arena del Sole il 14 e il 15 ottobre 2022, afferma D’Agostin, sarà «un romanzo scritto a cento mani»: in scena il corpo di Marta Ciappina, da tempo legata a D’Agostin per affinità emotiva e sensibilità corporea, si fa archivio vivente dei ricordi di un’intera generazione. Per riempire la distanza che il tempo origina tra un accadimento e il suo ricordo nel presente, Ciappina diventerà intermediario tra il qui e ora della performance e il viaggio attraverso la memoria che ogni spettatore intraprenderà. Così la condizione individuale potrà trascendere fino a inglobare e interpretare i pensieri della collettività riunita a teatro. L’invito è a giocare con il presente e il passato per confondere il corso degli eventi, riconoscersi gli uni negli altri e assicurare l’esistenza contro la dimenticanza.
Abbiamo intervistato Marco D’Agostin prima del debutto dello spettacolo.
Ne Gli anni affiderai la scena alla danzatrice Marta Ciappina, con la quale hai già collaborato in precedenza, assumendo per te il ruolo di coreografo invece che di interprete. Come mai hai scelto proprio lei in relazione alla natura e ai propositi dello spettacolo?
«Questo spettacolo è la risposta a un invito: quello che mi è stato rivolto da Marta, quattro anni fa. Marta è un’amica carissima e desiderava che io scrivessi un solo per lei. Ho atteso prima di accettare: l’ho sempre stimata per il suo rigore tecnico e perché come interprete sa mettere a disposizione il dato biografico coaugulandolo nella perizia del gesto. Temevo però di mettere in pericolo l’amicizia, e volevo che prima si scontornasse un’idea. Qualche tempo dopo, nel marzo del 2021, eravamo in prova per uno spettacolo di gruppo, SAGA, e come piace dire a me e Marta “abbiamo visto l’aurora boreale”. Vale a dire che è emersa un’immagine, si è formato un desiderio attorno al quale valeva la pena costruire uno spettacolo e attraversare assieme il caos di un processo creativo. All’epoca stavamo interrogandoci sullo storytelling, su come la danza potesse essere narrativa senza però adoperare gli strumenti classici della narrazione a teatro (la parola, l’azione, il gesto, l’iconografia), tendendo sempre a una “sublime astrazione”.
La biografia di Marta è dunque l’abbrivio di questo processo di lavoro: si presta perché è materia incandescente, ricca di avvenimenti pregnanti. L’intenzione qui è di considerare la scrittura coreografica alla stregua di quella di un romanzo, e di provare a rendere la storia di un singolo una superficie riflettente per la storia di tutti».
La musica è una costante (im)portante dei tuoi lavori e spesso costituisce un vero e proprio corpo che entra in relazione con gli altri corpi e con cui tu a volte lavori anche parallelamente rispetto ai movimenti. Abbiamo letto che nello spettacolo ci sarà una playlist che delinea e percorre la colonna sonora di una generazione.
«La musica è stata creata da Luca Scapellato, che ha lavorato con me anche in Best regards, Everything is ok e First love. Tra di noi c’è una pratica che si è assestata e ha preso forma negli anni. L’idea della playlist è legata a un’occasione molto specifica: un giorno ho visto la danza di Marta associata a una canzone di Achille Lauro. L’immaginario pop creava una frizione elettrica con le mobilità di Marta. La lista di canzoni dalla quale siamo partiti – e di cui pochi esemplari resistono nello spettacolo – è prima di tutto una carrellata di epoche. La canzone è un dispositivo memoriale: ha l’immediato potere di risvegliare ricordi che ci convocano in anni diversi delle nostre vite. In questo senso fa letteralmente “passare il tempo”. La canzone può essere consolatoria: ha la funzione di farci cambiare pagina, di sciogliere i dolori. Ma è anche molto crudele, soprattutto in uno spettacolo: è manipolatoria, distrae, ci catapulta da un ambiente all’altro ed è difficile resisterle.
Ne Gli anni, uno spettacolo costruito appunto come fosse un romanzo, la danza e le canzoni fanno la stessa cosa: sfogliano le pagine, ci aiutano ad andare avanti. Sono consapevole del margine di rischio che sto correndo: la canzone porta sempre con sé un impatto culturale e ne investe l’immagine. Il compito de Gli anni è quello di misurare l’effetto di questo impatto, talvolta arginandolo e talaltra lasciandolo andare».
La danza è per te spesso veicolo di una narrazione che vivifica la memoria. Con questo lavoro ti proponi di colmare la distanza quasi irreale che si crea tra un fatto accaduto e come esso appare a distanza di tempo. Come traduci quella stratificazione di memorie che è il tempo in un’architettura di movimenti giocando tra l’astratto e il concreto?
«Il dispositivo coreografico di questo spettacolo ipotizza che la memoria, così come il corpo, faccia sempre spola tra il presente e il passato. Vale a dire che ricordare significa sempre compiere un viaggio breve o lungo verso un punto nel tempo che sta dietro di noi e che ci chiede di tornare sempre al presente per dare testimonianza. Abbiamo cercato di tradurre questo pensiero in principi di movimento, in indicazioni per lo stare sulla scena. Volevo mettere il corpo nella condizione di partire sempre da un affaccio sul presente – il pubblico, la sua presenza – e di sentirsi costantemente richiamato dalla memoria, decidendo di rispondere oppure no. Per dirla come Bergson, ogni richiamo del passato è per Marta un invito ad agire o un’autorizzazione ad attendere. Il ricordo è una voce, talvolta seducente e talaltra spaventosa, ma sempre ci chiede di essere seguita. In questa trama di chiamate e risposte il corpo libera delle informazioni e, ogni volta che si riaffaccia sul presente, consegna un souvenir. Andare verso il ricordo per il corpo significa farsi attraversare dal fantasma di quello che è stato. Tornare al presente significa coagulare quell’attraversamento in un gesto, un segno, un’azione».
Abbiamo parlato tanto di memoria, soprattutto nel suo narrarsi attraverso il corpo. La memoria è infatti un punto focale della tua ricerca artistica, come si evince chiaramente in Best regards, che era una dedica alla memoria di una grande fonte di ispirazione. Da dove ha origine questa curiosità rispetto alla memoria?
«Fin da bambino sono sempre stato molto nostalgico. Eppure, mi piace osservare gli scherzi della memoria più che la sua efficacia. Mi interessa l’oblio, il fatto che il ricordo è sempre manipolatorio nei confronti della realtà. Nelle manipolazioni che la memoria opera per sopravvivere (un’ovvietà: è necessario dimenticare per andare avanti) si aprono spazi generativi, spazi nei quali si può inventare. Rispetto alle nostre vite non abbiamo l’obbligo di essere degli archivisti, anzi ci viene richiesto di fingere (in primis a noi stessi) rispetto al nostro passato per poter costruire nuove narrazioni di nuovi mondi futuri. Questo spazio di finzione non è sempre uno spazio di disonestà, anzi è uno spazio pieno di creatività. A me piace l’idea che lo spettacolo sia un modo per ricordare meglio, non nel senso di operare una selezione di ricordi, ma nel senso di aiutare a decidere come la memoria ci fa stare nel mondo.
Una seconda risposta potrebbe essere che per me è molto importante risvegliare nel pubblico il desiderio di ricordare. Mi interessa la visione di un gruppo di persone che insieme si affaccia sul proprio passato personale e su quello collettivo, due dimensioni sempre in dialogo. L’idea di un performer che ricorda e di un pubblico che ricorda insieme a lui/lei mi sembra un bel modo di pensare al teatro come evento».
Parlando sempre di memoria, Gli anni si pone come un racconto generazionale. La memoria da una parte è ciò che c’è di più intimo e che costituisce la nostra identità individuale, d’altra parte chiama sempre in causa l’altro, tanto che l’insieme delle memorie individuali compongono la memoria collettiva che è la storia. Nella tua visione e nel tuo lavoro come avviene il trascendersi della memoria individuale in memoria collettiva?
«Non ho mai lavorato sulla memoria in maniera sistematica o progettuale. È stato il mondo esterno (il pubblico, la critica, i colleghi) ad aver individuato per primi questa caratteristica. Spesso il mio lavoro è stato raccontato come “autofiction”, e capisco che ci sia bisogno di punti cardinali per districarsi nel panorama del teatro di ricerca di oggi. Io però ho il bisogno di guardare sempre altrove, quando sento sfiorarmi da un genere, da un tema, da una modalità. La domanda che mi pongo insistentemente durante il processo creativo è sempre la stessa e può apparire ingenua: di cosa ha bisogno questo spettacolo? A volte le risposte si assomigliano, ma mai i dispositivi che scelgo. Non lavoro sempre sul dato biografico, anche se è vero che sempre più spesso ragiono sui meccanismi della memoria, su come possono muovere i corpi (quelli in scena e quelli in platea).
Se consegno al pubblico un dato personale (in questo caso quello di Marta), quel dato ha sempre subito prima un processo di astrazione, anzi direi proprio di sublimazione nel senso chimico del termine. Quel dato non è importante in quanto tale, ma perché diventa gesto o segno. Quel segno deve mantenere un legame sia con la sua origine, che ha sede nelle pieghe del cuore del performer, sia con il pubblico, perché lo sguardo e la memoria di ogni spettatore gli permettono di appropriarsene, di collocare quel segno nel proprio album familiare. In questo senso direi che, se davvero succede, questo “trascendere” di cui tu parli avviene come un processo del corpo, ha a che vedere con la danza, con la scrittura coreografica e con la sua percezione.
Se guardo ai miei lavori, però, proprio in virtù di quell’ingenuità di cui sopra, credo che si sia sempre trattato di un effetto collaterale. La vita di chi danza e di chi crea non sono mai interessanti in quanto tali; lo diventano se riescono a innescare una danza, e se questa danza viene consegnata allo sguardo di un estraneo che se ne possa appropriare. Si tratta di mestiere, di affinare gli strumenti per scrivere e poi di dotare lo spettatore di quelli giusti per leggere. In questo processo di micro e macro traduzioni avviene qualcosa che ci riguarda tutti proprio perché rimane ineffabile, perché pertiene alla sfera del corpo (anche quando utilizzo la voce)».
Ci hai detto che vedi l’incontro con lo spettatore come un appuntamento, e difatti la relazione che instauri con il pubblico è intima e diretta, spesso segnata da un patto tangibile. In First love consegnavi un kit agli spettatori e in Best regards una lettera scritta da Chiara Bersani. In questo caso che forma prenderà il patto con il pubblico?
«Il patto che tu citi per me è fondamentale, ogni volta vanno ricreate le condizioni per sottoporlo al pubblico e chiedere silentemente di siglarlo oppure no: non esiste un oggetto performativo a prescindere dal pubblico. Questa può sembrare un’ovvietà, ma ritengo d’altra parte che ci sia un grande fraintendimento nel nostro ambiente a tal proposito. Tutti sembrano concordare sul fatto che l’oggetto artistico esiste per l’altrə, ma ben diverso è stare in sala quotidianamente con questa postura, considerare il pubblico come parte di ogni istruzione, di ogni indicazione, di ogni principio di scrittura, evocandolo come fantasma qualora non sia ancora presente. Questo significa che uno spettacolo va creato con delle porosità, cioè dei luoghi e dei tempi che si aprono ad essere attraversati da quello che accade di fronte alla scena. Non si tratta solo della drammaturgia, cioè della possibilità di prevedere aperture al dialogo con il pubblico, ma di un’attitudine del performer e della scrittura coreografica.
Uso spesso la nozione del “patto” perché mi interessa, in primis da spettatore, che la performance mi suggerisca una postura, un accorgimento dello sguardo. Non come prescrizione – occorre accordare sempre uno spazio di libertà – ma come esercizio di spostamento del punto di vista.
Non so ancora se la forma che il “patto” sta prendendo ne Gli anni sia quella giusta. La biografia di Marta si mette a disposizione dello sguardo degli spettatori, ma il nostro desiderio è appunto quello di scrivere una storia che parli di tutti. Io invito lo spettatore a guardare questo lavoro come se stesse leggendo un romanzo. Chiedo al pubblico di immaginare di sfogliare delle pagine, di richiamare per sé quel tipo di esperienza che ha a che fare con due dimensioni: il trascorrere del tempo e il tentativo di cercare sé stessi nelle parole. Vorrei che Gli anni fosse in questo senso una clessidra, simile a quella dei pomeriggi passati tra le parole di un libro, e insieme una superficie riflettente».
intervista a cura di Jacopo De Luca e Chiara Mannucci