Filippo Porro e Simone Zambelli, classe 1992, presentano il 6 luglio all’Arena del Sole di Bologna nell’ambito di Carne Ombelichi tenui, il loro primo spettacolo come duo autoriale, una ballata per due corpi nell’aldilà, un rito collettivo per esplorare la vita e la morte.
Cosa significa il titolo?
«Mentre stavamo cercando il materiale teorico per lo spettacolo, Simone mi ha mandato la foto di una frase di un autore siciliano, Antonio Castelli, tratta dal libro Ombelichi tenui: parlava di noi. Anche se all’apparenza il romanzo non c’entra nulla con il nostro lavoro, alla fine siamo riusciti a trovarci un legame tutto nostro: il filo della vita è molto sottile e tenue, e l’ombelico è la prima forma di nutrimento, un filo sottile che ci tiene tra la vita e la morte».
Nella vostra residenza alla Lavanderia a Vapore vi siete confrontati con le antropologhe e tanatologhe Marina Sozzi e Maria-Cristina Vargas. Vi hanno permesso di avere un approccio diverso alla tematica della morte?
«Sì, quella residenza ha costituito un punto di svolta nel nostro lavoro. Il confronto con Marina Sozzi e Maria-Cristina Vargas è stato prezioso e ci ha permesso di andare in profondità nello studio del tema: abbiamo analizzato a livello antropologico i diversi approcci al fine vita, sia orientali sia occidentali. In particolare con Vargas siamo partiti direttamente dal materiale fisico: ha guardato le prove e poi, prendendo spunto dalle nostre filate, ha attinto al suo panorama di riferimenti. Durante il dialogo con lei ci siamo resi conto che quello che avevamo già costruito era pregno di tutta una serie di elementi antropologici radicati nella cultura umana. Durante la ricerca, poi, abbiamo consultato molto materiale letterario, dal Libro tibetano dei morti agli haiku giapponesi, da Pavese a Kurosawa».
La morte non è un’esperienza che abbiamo vissuto sulla nostra pelle. Qual è stato il vostro approccio fisico a qualcosa di cui non conosciamo nulla?
«Gli elementi di partenza sono due: ti prendo e ti porto da questo punto dello spazio in un altro. Dal semplice accompagnarsi si innescano poi delle reazioni forti che acquistano un senso drammaturgico: nascono dei trasporti, il dare il proprio peso all’altro, il morire e il vedere l’altro morire. Ma nello spettacolo non parliamo solo di morte in senso stretto, bensì anche di relazioni di amore e di amicizia: quando ne finisce uno, è comunque una piccola morte.
La società di oggi prova un rifiuto nei confronti della morte, mentre la nostra idea è di costruire un rituale. Stiamo nella fisicità, nella concretezza, nel rapporto tra noi due e scopriamo cosa consegue a questo allontanamento e avvicinamento costante, a questo restare attaccati e non voler lasciare l’altro. Non abbiamo voluto ricreare un possibile aldilà, ma abbiamo immaginato un limbo. In una concretezza tra me e Simone, in uno spazio metafisico, c’è una sospensione di tempo all’interno della quale cerchiamo di costruire un rito che non c’è più e che noi cerchiamo di portare a chi guarda. Vogliamo rendere gli spettatori parte di questo rito. L’evento della morte assume dunque un significato molto ampio, legato alla sparizione. A un certo punto si sparisce: cosa resta e cosa rimane? Queste sono le domande che ci portiamo dietro da tutta questa ricerca e che lasciamo al pubblico».
Nello spettacolo usate molti oggetti di scena simbolici. Che significato o funzione hanno?
«Durante la fase di ricerca sulla morte abbiamo attinto da varie fonti, incontrando elementi che ritornavano in varie culture, e così li abbiamo inquadrati come simboli peculiari. Per esempio il pane è un elemento ricorrente nelle credenze e nelle usanze di vari popoli in relazione al passaggio dalla morte all’aldilà, in quanto il cibo tende a simboleggiare la presenza o l’assenza della vita: nell’antichità veniva posto del pane nelle tombe affinché l’anima lo donasse a Cerbero come “passaporto” per l’altro mondo; nei riti funebri albanesi o nell’ofrenda messicana invece si mangia sulla tomba per celebrare la ricongiunzione tra vivi e morti. Per questo, di rimando alla tavola dove si mangia, è presente in scena anche una tavola di legno, che ricorda sia una tomba sia una lapide per la sua forma geometrica. Nello spettacolo compaiono inoltre delle pietre, un elemento da sempre utilizzato per lasciare il segno del proprio passaggio lungo percorsi o cammini, ma anche per la costruzione di tombe: simbolo di una presenza che c’è stata e non c’è più, la pietra è risultata un elemento transculturale tematico coerente con la nostra ricerca. Infine, le maschere in scena provengono da una delle fiabe tra le tante analizzate, ovvero La morte della gallinella dei Fratelli Grimm, che si conclude con un rito funebre realizzato da diversi animali. Lavorando con le antropologhe ci siamo anche soffermati sull’anfibio, un animale tra la terra e l’acqua, elementi molto presenti nei rituali funebri: nell’antichità il Lete era il fiume della dimenticanza, dalle cui acque dovevano bere le anime destinate a nuovi corpi. Delle specie di lucertole sotto forma di maschera fanno quindi da traghettatrici verso un rituale altro, a simboleggiare l’ipotesi di una eventuale reincarnazione».
Quali emozioni avete provato confrontandovi con la morte?
«Sono uscite fuori emozioni diverse e molto soggettive. A me è risultato angosciante pensare a “cosa rimarrà di me”, dal momento che vorrei resti qualcosa di me, mentre per Simone il pensiero della morte è più leggero; lui vive con serenità e naturalezza l’idea di potersi lasciare tutto dietro. Emozioni forti le abbiamo sperimentate chiedendoci cosa fosse e cosa provocasse un’assenza: sono emerse sia violenza che dolcezza, estremo odio ma anche immenso amore. Tutto ciò è mescolato in questo lavoro: il pezzo è molto materico e l’impatto a livello visivo è forte, perché la morte cerchiamo di vestirla elegante ma in realtà è una cosa cruda, che si imbatte nelle nostre vite con violenza nei momenti più inaspettati».
intervista a cura di Beatrice Gatti e Marta Renda