Creatura ripugnante, accozzaglia di carni malferma sui suoi piedi, il Frankenstein incarnato dal Teatro la Ribalta ne Il paradiso perduto (testo e regia di Antonio Viganò, visto il 13 maggio al Teatro Arena del Sole nell’ambito del focus “Carne”) è una “piccola cosa perduta”, un feto fuori misura prematuramente strappato al conforto di un grembo caldo e accogliente, un prodotto della scienza ripudiato dalla stessa umanità che gli dà forma e consistenza. In scena spadroneggiano la volontà di potenza e la brama di controllo di una specie ottusamente impegnata a indugiare nel proprio raziocinio e applaudire la civiltà di cui si fa baluardo, e sul palco – che gli attori condividono con il pubblico seduto su due tribune speculari – campeggia una specie che si nutre di eccezionalismo e, nell’aspirare alla conoscenza illimitata, fabbrica mostri, ma non pensa di schierarsi a loro fianco e rinnega le proprie affinità con la devianza. Il soggetto molare, integro, padrone di sé e del creato, si arrocca nella sua casa di specchi e si compiace nella propria immagine riflessa: l’amore, la compassione, la pietà sono forze centripete che voltano le spalle a un’alterità che incarna differenza e inferiorità.
Frankenstein è il teras, l’essere mostruoso che scardina l’ideale di armonia e misura cui è piegata l’estrema biodiversità del cosmo incarnando la degenerazione di un ordine che poggia sulla logica abilista del καλὸς καὶ ἀγαθός. Frankenstein è il capro espiatorio di azzardati esperimenti con la vita, il monito divino per un atto sacrilego. Un tale risultato non può che incontrare immediato ripudio: incolmabile è la distanza che lo separa dall’assemblea umana. Il Dottor Frankenstein non può contenere il disordine che ha creato, nega l’abbraccio, nega conforto e compassione, nega l’educazione e fallisce miseramente. Non è da condannare come demiurgo, bensì per ciò che ha scoperto: disapprovare il suo operato perché colpevole di aver violato Madre Natura nel XXI secolo è un ragionamento quantomai fuori da ogni logica – non c’è invenzione che non abbia insultato le prerogative di un Dio, non c’è natura che non sia già artificio. A risultare deplorevole è piuttosto il suo stringersi a una fortezza fatta di eccezionalità e presunta perfezione e disconoscere che siamo tutti fatti della stessa sostanza.
Il vecchio cieco invece lo dice e lo ripete: «Dio non c’entra, nasciamo tutti uguali». E io prendo posizione: mi schiero con lui e con il mostro. Gli attori “diversi” del Teatro la Ribalta non inscenano un teatro sociale, ma sostengono un teatro di parola e di gesti fortemente radicato nella materialità dei corpi, nella fermezza degli sguardi, nel ritmo pur sospeso delle battute. Per loro, incarnare le vicende del mostro più famoso della letteratura occidentale è una scelta politica forte. Ma come non rendere banale l’accostamento disabilità-anomalia? Come scardinare i procedimenti di una volontà di potenza che indugia su prerogative abiliste e segue la logica di riproduzione del Medesimo eguagliando la differenza all’inferiorità e alla devianza?
Emblema della simultaneità degli opposti, alterità per eccellenza, il mostro svolge una funzione dialettica e rivoluzionaria rispetto alla norma. Prende parola dalle frontiere del mondo imbellettato e ordinato e sfugge a una logica della rappresentazione che vuole corpi docili da piegare ai propri ordini. Le sue sproporzioni male si inscrivono nella perfezione del quadrato e del cerchio: il nuovo Uomo Vitruviano è un collage che può riassemblarsi secondo combinazioni inedite ed emanciparsi da stereotipi di forma e organicismo che gli vanno stretti, evocando un’anatomia delle singole parti, piuttosto che prestare fede a un’unità primigenia più celeste che terrena.
Sulla scena, la creatura prova a prendere coscienza di una corporeità che va risignificata: attraverso una danza rituale, un fraseggio di movimenti ripetuti, tocca quella carne malferma e rammendata per farla sua e accettarla. Ma il mondo che Viganò ci propone è ancora in cerca del suo “paradiso perduto” e non sembra pronto a ricomporre la materialità incarnata secondo direzioni opposte alla legge dell’abilità e dell’efficienza. La normalità dietro la quale ci rifugiamo è essa stessa una costruzione che nasconde l’infondatezza dei privilegi cui cerchiamo di aggrapparci. Abbiamo tutti cicatrici, siamo tutti più o meno abili, siamo tutti fratturati, tutti scomposti e imperfettamente ricuciti. Il teatro anatomico può essere il luogo della perdita dell’integrità originaria e della presa di consapevolezza di una materialità complessa e contaminata che trova nell’eterogeneità delle parti che la compongono la sua vera forza. Lì, gli attori “diversi” possono sfuggire allo sguardo giudicante dell’altro, agli atteggiamenti pietistici, a quelli protettivi e compassionevoli, a qualsiasi logica di rappresentazione, perché diventano altro pur rimanendo ben radicati nella corporeità che li caratterizza e li rende unici. Una nuova prospettiva incarnata è la possibilità di riscatto di una marginalità che solo apparentemente sembra aver perduto il paradiso. Poggiare su presunte verità universali appiattisce il mondo, incanala la sua polimorfa varietà in un’unica strada la cui rigidità alimenta passioni tristi e trasuda negatività. Siamo tutti schemi complessi innervati di diversità e più a nostro agio con la devianza che nell’ordine di una norma. Operiamo allora dissezioni anatomiche non tanto per calcolare proporzioni e indagare simmetrie, quanto per riscrivere le coordinate della normalità e accogliere la differenza in tutte le sue provocazioni.
Chiara Mannucci