Le Etiopiche di Mattia Cason non è un semplice spettacolo teatrale che mira a intrattenere. Sin da subito si percepisce la volontà di far passare un messaggio, una forte valenza politica che viene poi esplicitata alla fine, quando Cason rompe la quarta parete ed espone al pubblico quella che lui stesso definisce «una proposta politica per un’Europa afroasiatica». In vista della replica dello spettacolo in programma il 5 novembre al Drama Teatro di Modena, nell’ambito del focus “Carne” a cura di Emilia Romagna Teatro, abbiamo rivolto qualche domanda a Mattia Cason.
Ne Le Etiopiche porti avanti l’idea di una “Europa afroasiatica”. Di cosa si tratta?
«L’idea dell’Europa afroasiatica ha la forma di un’intuizione e, come tutte le intuizioni è soprattutto un desiderio, un sentimento che ti spinge un passo in avanti, nel buio. Non penso che sarei in grado di descrivere in maniera razionale e analitica un eventuale progetto politico legato a quest’idea; posso però dire che l’Europa afroasiatica è una suggestione nata da una serie di studi e di esperienze di vita, basate innanzitutto sull’idea di un dialogo costante e profondo – quasi mistico – tra i tempi storici del passato, del presente e del futuro.
Nella dimensione del presente, l’Europa afroasiatica sarebbe un’Europa che apra le porte ai migranti di oggi, provenienti da Africa e da Asia. Che lo faccia non solo e non tanto per filantropia e bontà di cuore, quanto per una necessità storica ed esistenziale, quella appunto di capire chi siamo veramente noi europei. Penso che l’Europa sia davvero afroasiatica, perché alcuni elementi fondamentali di quella che è diventata col tempo la cosiddetta civiltà europea – elementi in primis culturali, ma non solo – sono provenuti dall’Asia e dall’Africa, soprattutto dalla regione della “mezzaluna fertile”, dalla zona costiera siro-palestinese, dall’Egitto e da tutta la zona attorno al Nilo, fino ad arrivare in Etiopia.
Quindi quello dell’Europa afroasiatica è da una parte di un progetto politico presente, e anzi proiettato nel futuro di un’Europa che apre le porte ai popoli in quanto portatori di una storia che è anche nostra; e dall’altra parte è un tuffo nel passato, una ricerca delle influenze afroasiatiche soprattutto nella civiltà greca, e di conseguenza nella civiltà europea, che possa consentirci di riconoscere queste persone, solitamente intese come totalmente altre e straniere, come individui che invece ci svelano dei segreti, delle verità su noi stessi. In questo schema entra allora l’idea di un’Europa che non è tanto la somma di tante nazioni, quanto un esperimento sociopolitico che vada proprio oltre l’idea di nazione. L’espressione “Europa afroasiatica” serve proprio a sottolineare come la nuova Europa non sia solo europea, cioè non sia la trasposizione su scala europea di logiche nazionali: si tratta invece di un nuovo organismo politico e sociale fondato sull’accettazione e sull’incontro della differenza come l’elemento essenziale non tanto nella fondazione di un’identità, quanto nella continua messa in discussione dell’identità intesa non come un monolite, bensì come un processo in costante divenire. Un’Europa che riconosca la propria storia di continue migrazioni e rimescolamenti, che si proietti nel futuro proponendo questo nuovo modello di socialità».
Quali sono i riferimenti politici e culturali che ti hanno portato a creare questo concetto e questo spettacolo?
«Sicuramente qualche influenza ha avuto la lettura, a vent’anni, del primo volume del testo di Martin Bernal Black Athena: The Afroasiatic Roots of Classical Civilisation. Ho anche letto però varie critiche sul metodo applicato da Bernal e sulle conclusioni cui è giunto, e quindi non lo considererei un riferimento assoluto. Poi c’è Pier Paolo Pasolini, un personaggio che mi ha folgorato sia nelle cose che diceva che nella modalità con cui le diceva, per la nitidezza della sua scrittura e per la sua poetica meravigliosa, soprattutto coi suoi film: è un’estetica a cui mi sento vicino.
In generale, però, lo spettacolo ha molto a che vedere con le mie esperienze personali. Il riferimento principale sono le persone incontrate e i luoghi camminati, visti e vissuti, che mi hanno generato la voglia di mettere in discussione sia l’identità monolitica europea che l’identità personale rigida, facendo invece spazio a un’idea del sé come un miracolo relazionale, a un essere umano che vive soprattutto di relazione con l’ambiente che lo circonda e con le persone che incontra. A questo avviso, è per me significativa la differenza di pensiero tra due antropologi, Claude Lévi-Strauss e Gregory Bateson: mentre Lévi-Strauss postula una differenza tra mente e mondo, e quindi tra individuo e contesto, Bateson ritiene che la nostra verità percettiva stia nell’interfaccia tra noi e il contesto, l’ambiente. Questa è una riflessione a livello psicologico individuale che mi piace riportare a livello politico: un corpo individuale che è innanzitutto relazione con l’esterno e un corpo politico che è innanzitutto relazione tra le sue diverse parti».
A chi sei andato “incontro” e a chi o a che cosa volevi andare “contro”, con questo spettacolo?
«Non ho voluto andare contro a nessuno, non per viltà o altro, ma perché la suggestione dell’Europa afroasiatica è nata con l’esigenza di parlarne e di condividerla come esperienza teatrale, e siccome nel mondo del teatro – e in generale nel mondo di oggi – predomina in maniera insopportabile la critica negativa, era per me importante che questo progetto fosse soprattutto una presa di posizione affermativa, una proposta. Poi è chiaro che un’idea come questa va contro l’idea di nazione e di tutto ciò che ne consegue, ma è comunque un’idea rivolta in maniera positiva. Nel fare ciò, sento di essere andato incontro a tutte le persone che mi hanno rivelato il mistero, la magia e la bellezza della relazione. Penso infatti che quella dell’Europa afroasiatica sia soprattutto una suggestione di giustizia e quindi, va da sé, di bellezza.
Una notte camminavo in Samaria, una regione situata nel nord della Cisgiordania e abitata prevalentemente da beduini con diversi insediamenti israeliani. Avevo calcolato male i tempi e fatto tardi. A un certo punto ho incontrato un gruppo di beduini e sono stato annunciato dai bambini che mi additavano come “yahudi” (ebreo); ero spaventato ma ciononostante sono andato verso di loro parlando in un arabo maccheronico. Uno di questi beduini, di nome Herb (che significa “guerra”), parlandomi in un arabo che io capisco soltanto a metà, mi ha dato un materasso e del cibo e ho dormito insieme a loro all’aria aperta. Ho riflettuto molto su questo episodio: un beduino della Palestina che vive sotto l’occupazione israeliana, in condizioni considerate da noi europei occidentali come di povertà, ha ospitato un ragazzo bianco europeo di 25 anni che fa il turista perché se lo può permettere, ricco abbastanza da avere tempo libero per fare un’escursione nel deserto e sentirsi una persona avventurosa. Che questa persona mi abbia accolto, dato da mangiare e augurato buon viaggio la mattina dopo, per me è un miracolo di giustizia e di immensa bellezza. Da questi comportamenti ci sarebbe da imparare e da applicarli nella nuova Europa, l’Europa afroasiatica».
Alla fine dello spettacolo inviti le persone a rimanere a parlare, dando spazio a un vero e proprio dibattito – una pratica che non è molto comune a teatro. Che tipo di esperienze e risposte hai avuto nel corso delle varie repliche in giro per l’Italia e l’Europa?
«C’è stata una netta differenza a seconda delle nazioni in cui l’ho portato. In Slovenia, a Ljubljana abbiamo ricevuto una critica molto decisa sullo spettacolo, che è stato definito naïve, ignorante sulle questioni della colonizzazione e addirittura neoliberista. Visto il luogo, penso che il commento fosse influenzato dalla percezione balcanica, dove l’Europa viene spesso vista come un progetto colonizzatore neoliberista che vuole accaparrarsi più territorio possibile con la scusa della sua posizione geografica, ma con l’obiettivo reale di allargare il proprio mercato. È stata una critica inaspettata e molto interessante, perché di fatto, pur essendo molto locale, rispecchia l’opposizione al progetto europeo provenienti sia dalle sinistre che dalle destre estreme in tutta Europa. Questa critica mi ha molto aiutato a capire il posizionamento politico di questo spettacolo e della stessa suggestione dell’Europa afroasiatica a partire da un processo di negazione: pensavo che la suggestione fosse innanzitutto e indubbiamente antifascista, intendendo il fascismo come incancrenimento ultimo dell’idea nazionale, mentre ho scoperto che questa tesi è anche contro la sinistra massimalista, quella cioè che vede nell’Europa soprattutto un progetto di matrice neoliberista.
In Italia invece lo spettacolo è stato accolto con favore ed entusiasmo. Ma per quanto riguarda il dibattito, è vero, non ci siamo abituati: talvolta la mia richiesta di dialogo col pubblico è stata vissuta come una forzatura che rovina lo spettacolo, riducendo quest’ultimo a una mera propaganda per un’Europa unita. Questa critica mi ha fatto sorridere, perché penso che il mio spettacolo in realtà vada contro la moda imperante del teatro che non dà risposte e solleva solo domande. Il mio è uno spettacolo politico, fa una proposta e quindi sì, è propaganda nel senso in cui io prova a propagare ciò che sento come una necessità».
Le Etiopiche è uno spettacolo che sfrutta linguaggi diversi tra di loro: ci sono la danza e il lavoro sul corpo, il video e il cinema, c’è molta musica e c’è il teatro di parola, anche se con una recitazione “non convenzionale” e in tante lingue diverse. Perché hai deciso di coinvolgere tutte queste arti? Come le hai messe insieme e come hai trovato un equilibrio? E qual è il contributo specifico di ognuno di questi linguaggi?
«La questione è soprattutto di prospettiva: interrogarsi sulla presenza di vari linguaggi parte da un presupposto sulla diversità di tali linguaggi. Invece, i linguaggi sono semplicemente diverse possibilità di espressione e non penso ci sia una vera ragione per cui io abbia utilizzato varie arti. Semplicemente, c’è stata in me la necessità di rincorrere linguaggi diversi per tentare di esprimere tutta una serie di sfumature rispetto al nucleo concettuale dell’Europa afroasiatica. Poi, certo, la diversità dei linguaggi può essere anche un invito all’accettazione e alla valorizzazione della diversità di per sé, e nel tentare di esprimere una proposta come la mia, è stato naturale utilizzare diversi mezzi per esprimere diverse sfumature. Lo spettacolo è strutturato in modo da affrontare questa questione al suo interno: la proposta di un’Europa afroasiatica ha la necessità di essere formulata attraverso il linguaggio e di parlare in scena, ma non può esaurirsi sul mero piano verbale, perché ha una dimensione mistica che non può che passare attraverso mezzi non linguistici, come la danza (e quindi il corpo) e il video.
Ne Le Etiopiche, l’utilizzo del corpo ha molto a che fare col tentativo di ricordarsi chi siamo, e cioè anche e soprattutto degli animali. Nella società moderna abbiamo la tendenza di concentrare la nostra idea del sé nella testa, dimenticandoci che siamo anche e soprattutto corpo, e non c’è differenza tra corpo e testa, tra corpo e anima. Il corpo è, insieme all’ambiente e al paesaggio, il nostro minimo comune denominatore, e per questo motivo penso che sia stato importantissimo per me. Il linguaggio del video, invece, l’ho utilizzato perché condivido l’opinione che vede nell’immagine un veicolo privilegiato dell’ineffabile. C’è una suggestione teorica che ho iniziato ad affrontare, che è la riflessione sull’immagine del sufi andaluso Ibn al-Arabi, il quale parla di “mondo delle immagini” in una ripresa del mondo delle idee platoniche, dove si postula un’ontologia specifica alle immagini e una sua compresenza».
Una cosa che colpisce dello spettacolo è il plurilinguismo: in quante lingue si recita? Tu stesso ci hai raccontato che non parli alcune delle lingue in cui reciti. Perché questa scelta di plurilinguismo estremo? Ha un valore anche politico? E come è stato recitare in lingue che non conosci?
«Nello spettacolo si sentono l’yiddish di una voce fuori campo, il tedesco di Wittgenstein, il persiano di Jami e della scena di danza, il greco di Mennone e del cantore col bouzouki, l’amarico di tre ragazzi in video e di una canzone, il turco della guardia costiera turca che si lascia corrompere per lasciare andare i ragazzi in Grecia, l’inglese e l’italiano nei sottotitoli e nel monologo finale, e infine un intervento conclusivo in arabo. Nonostante io non sappia parlare tutte queste lingue, lo spettacolo mi dà la possibilita di parlarle e in questo senso mi affascina come il teatro dia la possibilità della finzione di parlare più lingue: viene così ribadita la dimensione culturale della lingua, ovvero la possibilità della lingua – e quindi della cultura – di essere appresa. Questa possibilità è la chiave della proposta di un’Europa afroasiatica, che vive di una dimensione dinamica e aperta di cultura. Le culture non sono nel sangue e nella terra, come viene urlato e sbandierato dai nazionalismi, ma sono nell’incontro e nella pratica, nello studio, e si possono apprendere: si può divenire arabi, persiani, greci.
Personalmente ho un approccio attoriale anche nella realtà; ho cioè la voglia perenne di divenire altro, di imparare una lingua non tanto e non solo per saperla bensì per scoprire la differenza in me stesso. Lo studio e la conoscenza della lingua equivale a una nuova scoperta di sé, a un allargamento dei propri confini e possibilità, e questo è un lavoro individuale che trova un corrispettivo perfetto a livello sociale nel lavoro che si dovrebbe fare per un’Europa afroasiatica. La mia esperienza della possibilità di cambiare personaggi attraverso un passaggio linguistico è una cosa straordinaria e le possibilità della diversità linguistica della pluri-identità in una persona sola portano a un godimento sensoriale che ha un valore fortemente politico. Si può essere tante cose diverse e sta a noi riscoprire la nostra diversità interna: tutto ciò è un parallelismo preciso con la necessità, da parte dell’Europa, di una riscoperta della propria multi-identità».
Nello spettacolo giochi tra moltissimi piani temporali, evocando periodi storici diversi e personaggi lontani tra loro, da Badoglio ad Alessandro Magno. Questo approccio orizzontale, disordinato e trasversale alla storia ci sembra abbastanza “in voga” nel panorama contemporaneo, in vari contesti non solo teatrali ma anche letterari. Che tipo di lavoro storico sulle fonti hai portato avanti per Le Etiopiche?
«Come detto, la compresenza di quelli che convenzionalmente chiamiamo presente, passato e futuro è un’idea centrale nello spettacolo. Il teatro dà la possibilità pratica e immediata di mostrare questa compresenza, ma non penso che il mio approccio corrisponda a quello più in voga: ne Le Etiopiche la compresenza dei tempi non è un frullato disordinato; anzi il lavoro è forse sin troppo pulito e ordinato nella presentazione di questi tanti piani temporali diversi.
Per quanto riguarda il lavoro di ricerca, mi sono basato su fonti meno storiografiche, e in particolare sule diverse versioni del romanzo di Alessandro Magno, soprattutto le versioni in lingua araba e persiana, per il personaggio di Jami, sufi persiano del XVI secolo che ha scritto un testo in sette capitoli per i sette troni, dove il settimo trono corrisponde alla lettera sapienziale di Alessandro».
Alessandro Magno è una delle figure più importanti dello spettacolo, che racconta il suo viaggio di conquista verso l’India, mettendolo in relazione/opposizione a un viaggio uguale e contrario, quello dei migranti di oggi che partono da est per arrivare a ovest, in Europa. Perché proprio Alessandro? Che cosa simboleggia la sua figura per te e nell’economia dello spettacolo la sua figura?
«Alessandro Magno è soprattutto una contraddizione, anzi è l’epitome della contraddizione europea. Volevo mettere in luce la contraddizione del continente europeo, caratterizzato nella sua storia millenaria sia da una curiosità positiva rispetto all’altro da sé, che da una volontà di potenza e dalla voglia di conquista di questo altro; e la figura di Alessandro racchiude queste due caratteristiche. Alessandro Magno fu infatti l’europeo che per primo “la fece pagare” all’Asia, ovvero all’impero persiano che minacciava la civiltà greca, ma mentre faceva questa conquista, iniziava ad avere il desiderio di avere un grande impero oltre i confini europei. Per questo motivo, Alessandro Magno è sì un violento conquistatore, ma al contempo propone qualcosa di più avanti rispetto allo spirito dei suoi tempi, con i matrimoni incrociati, la fusione delle culture e in generale la sua curiosità. Si tratta di qualcosa che va nella direzione di un incontro, della fusione delle differenze culturali, e che quindi rappresenta sia l’Europa che è stata che quella che deve essere. L’Europa post-coloniale è proprio questo: dopo la conquista violenta dell’alterità, dopo un viaggio fuori, c’e un ritorno in: la diversità ora è dentro l’Europa, gli abitanti delle ex colonie adesso migrano in Europa come conseguenza della storia coloniale».
Ormai sarà abbastanza chiaro, anche a chi ancora non lo ha visto, che questo spettacolo ha un grado di complessità elevato: tantissime lingue, tantissime arti diverse spesso anche non verbali e non molto “frequentate” come la danza contemporanea, un sostrato storico ricchissimo, il tutto gestito con disordine narrativo e libertà. Non hai paura che lo spettatore venga confuso da tutto questo, che sia “troppo” per lui? Oppure suscitare confusione è un tuo obiettivo?
«Sono convinto che lo spettacolo sia tutt’altro che confuso; anzi lo trovo ancora troppo consequenziale, pulito e schematico. Mi rendo conto di quanto possa essere letto come estremamente complesso, e quindi come esso possa generare una sensazione di confusione, cosa che considero una grande sfida. Non avevo nessuna intenzione di presentare qualcosa di confuso; vorrei che lo spettatore arrivi non soltanto all’idea generale, quanto ai dettagli della storia e dell’intreccio, perché è lì che si vede la complessità dell’operazione che tento di fare, e che è tutt’altro che confusa. La scelta delle storie e dei tempi di presentazione delle varie linee narrative, le finestre aperte sul presente con il viaggio dei tre etiopi, la connessione dei viaggi dei colonizzatori e dei colonizzati: tutto questo non è nato come una sovrapposizione confusionaria di cose. La domanda che mi faccio è questa: è possibile trasferire da pari a pari la complessità dell’argomento in uno spettacolo teatrale? Di base penso di no, perché è sempre difficile far passare nella totalità dei dettagli una suggestione che è estremamente difficile da contenere intellettualmente. Perciò penso che dovrò far coesistere lo spettacolo insieme ad altre forme come conferenze in determinati luoghi in cui esplorare le possibilità di un’Europa afroasiatica? Ci sto pensando…».
intervista a cura di Vassilina Avramidi e Camilla Marchisotti